L’importanza della riservatezza anche in ambito PoC

La fiducia è fragile. Una volta persa, non torna più

Non tutto ciò che sentiamo va ripetuto

Quando riceviamo una confidenza, una frase detta in un momento di vulnerabilità, non possiamo trattarla come se fosse pubblica.
Anche se detta su un canale aperto, anche se registrata, appartiene a chi l’ha pronunciata.

Se vuoi proteggere una persona, non parlare di lei, anche se lo fai con buone intenzioni.

La riservatezza costruisce sicurezza emotiva

Chi parla via radio in emergenza spesso lo fa:

  • sotto stress
  • senza filtri
  • con esposizione emotiva alta
    Sapere che nessuno userà quelle parole contro di lui è ciò che permette di parlare ancora, domani.

Frasi da evitare, anche se dette “con affetto”

❌ “Te lo dico perché gli voglio bene…”
❌ “L’altra volta lui ha detto che…”
❌ “Sai che in privato mi ha confessato che…”
Anche in un gruppo ristretto, queste frasi violano la fiducia.
✅ Se proprio necessario, parla dei comportamenti, mai delle parole dette in confidenza.

Via PoC, la voce è identità

A differenza delle chat scritte, via PoC non si è anonimi.
La voce è riconoscibile. Il tono, il ritmo, persino la posizione.

Proteggere la riservatezza significa non diffondere registrazioni, non imitare voci, non commentare a posteriori una comunicazione emotiva.

La regola del “canale chiuso”

Quando una persona ti parla in privato o in un contesto sensibile:

  • non riportare nulla nei canali pubblici
  • chiedi sempre il permesso prima di condividere qualcosa
  • evita “riassunti emotivi” a terzi, anche se sei in buona fede

Un errore di leggerezza può causare la chiusura definitiva di una persona verso tutto il gruppo.

Cosa fare se hai bisogno di condividere una preoccupazione

✅ Chiedi il consenso: “Ti va se ne parlo con [nome] per aiutarti meglio?”
✅ Oppure, condividi solo il fatto, non le parole:

“Un membro del gruppo sta passando un momento difficile. Possiamo pensare a come esserci, senza fare domande.”
Sii sempre pronto a proteggere l’identità dell’altro.

Chi rispetta il silenzio, viene cercato di nuovo

In emergenza, la fiducia è più preziosa della competenza.
Una persona che sa ascoltare senza raccontare in giro, che sa contenere senza usare, è una risorsa rara.

Per questo, nella rete PoC Radio Italia, la riservatezza non è solo una regola: è un pilastro etico.

Non sostituirsi agli psicologi: dove si ferma il nostro ruolo

Il confine tra essere d’aiuto e fare danni (anche in buona fede)

Offrire ascolto non è fare terapia

Quando siamo presenti, empatici, disponibili, qualcuno può dirci:

“Mi fai meglio tu di uno psicologo.”
Può sembrare un complimento. In realtà è un segnale di rischio.
Perché l’ascolto umano è potente, ma ha limiti precisi.
Non abbiamo strumenti per gestire traumi profondi, psicosi, crolli identitari.

Il nostro ruolo: contenere, non curare

Il nostro compito, come volontari, operatori radio, cittadini attivi, è:

  • stare vicino
  • contenere nel momento
  • ascoltare senza giudizio
  • reindirizzare se serve
    Ma non entrare nel passato clinico, non fare diagnosi, non “risolvere traumi”.

Frasi da usare (e da evitare)

✅ “Se ti senti male da giorni, potresti parlarne con uno specialista.”
✅ “Io ci sono per ascoltarti, ma non sono un professionista.”
✅ “Vuoi che cerchiamo insieme un supporto più strutturato?”

❌ “Secondo me hai un disturbo.”
❌ “Dovresti prendere qualcosa per calmarti.”
❌ “Hai bisogno di me, non di uno psicologo.”

Fare il bene dell’altro non significa essere indispensabili.

Quando è il momento di “passare la palla”

  • Quando i sintomi persistono oltre 2 settimane
  • Quando compaiono ideazioni autolesive o pensieri di morte
  • Quando la persona inizia a dipendere da te emotivamente
  • Quando non riesci più a dormire perché pensi a lei/lui

È lì che si ferma il nostro aiuto.
È lì che inizia l’intervento psicologico vero.

La trappola del salvatore

Spesso ci leghiamo profondamente a chi aiutiamo.
Questo può diventare:

  • dipendenza reciproca
  • esaurimento da coinvolgimento emotivo
  • difficoltà a lasciar andare

Ricorda: non sei indispensabile. Sei un passaggio, un ponte.

Come PoC Radio Italia può fare la sua parte

  • Facilitando il contatto con reti di professionisti
  • Creando spazi dove l’aiuto umano non pretende di curare
  • Educando chi comunica alla cultura del limite responsabile

L’aiuto vero è anche saper dire: “Ora non basta più la mia voce. Serve qualcosa in più.”

Aiutare davvero è anche sapere quando smettere

Essere d’aiuto non vuol dire trattenere l’altro a tutti i costi.
Vuol dire accompagnarlo fino al punto giusto, e poi lasciare spazio a chi può andare oltre.

Perché la cura è un percorso. E noi siamo solo uno dei primi gradini.

Riconoscere segnali di disagio prolungato

Non è solo una giornata storta: è qualcosa che resta

La differenza tra crisi momentanea e disagio prolungato

Uno scatto d’ira, un pianto improvviso, un silenzio momentaneo… possono essere normali reazioni allo stress acuto.
Ma se certi comportamenti persistono per giorni o settimane, senza miglioramenti visibili, potremmo trovarci davanti a un disagio psicologico strutturato.
Riconoscerlo per tempo fa la differenza.

Segnali vocali e comportamentali da osservare

Via PoC Radio o in presenza, presta attenzione se una persona:

  • ha tono piatto, spento, privo di variazione
  • evita le conversazioni, anche se prima era attiva
  • ripete le stesse frasi senza evoluzione (“tanto è inutile”, “non cambia nulla”)
  • non risponde ai messaggi ma rimane online
  • mostra irritabilità costante, anche per dettagli banali

Segnali più sottili ma significativi

  • Ride fuori contesto
  • Minimizza con frasi come “sto bene” senza mai aprirsi
  • Parla di “stanchezza cronica” o “non dormo da giorni”
  • Dimentica cose importanti o mostra confusione
  • Dice frasi come: “Non so se ci sarò domani”, “Magari sparisco”

Non sono allarmi immediati, ma campanelli da non ignorare.

Cosa fare se noti questi segnali

  • Mostrati disponibile senza forzare
    Usa frasi come:
  • “Ti sento diverso, se vuoi parlarne ci sono”
  • “Anche se non rispondi, io resto in ascolto”
    ✅ Offri continuità: un piccolo messaggio ogni giorno può fare la differenza
    ❌ NON dire:
  • “Ma dai, è solo stress”
  • “Tutti hanno problemi, su”
  • “Vedrai che passa”
    Queste frasi chiudono, non aiutano.

Attiva il gruppo, non rimanere solo

Se il disagio è evidente ma non gestibile da soli, coinvolgi:

  • altri membri fidati
  • familiari (se noti segnali critici)
  • figure professionali se disponibili
    L’obiettivo non è “curare”, ma non lasciare soli.

Anche chi aiuta può ammalarsi

Attenzione: chi è sempre disponibile per gli altri può diventare vulnerabile al disagio prolungato.
Se ti accorgi di:

  • stanchezza emotiva continua
  • cinismo crescente
  • desiderio di isolarti
    …forse è tempo di chiedere sostegno per te, non solo per gli altri.

Riconoscere è prevenire

Il disagio prolungato non si manifesta sempre in modo evidente.
Serve attenzione, memoria relazionale, e la capacità di leggere anche tra le righe.
Chi nota per tempo, chi nomina con delicatezza, chi resta vicino…

può diventare la voce che interrompe il silenzio più pericoloso di tutti.

Fasi del post-trauma (defusing, debriefing)

Dopo l’emergenza, inizia la vera stabilizzazione

Il trauma non finisce con la fine dell’evento

Molti pensano che “se è finita, è passata”.
Ma il vero impatto psicologico spesso arriva dopo. Quando cala l’adrenalina, restano le immagini, i suoni, i vuoti dentro.
Per questo servono spazi e tempi per decomprimere, non solo per “tornare alla normalità”.

Cos’è il defusing?

Il defusing è un intervento immediato (entro le prime ore) dopo l’evento critico.
Serve a:

  • fare una prima elaborazione emotiva rapida
  • abbassare la tensione
  • normalizzare le reazioni
  • limitare il rischio di blocchi o shock psicologici

Esempio: dopo un blackout o un incidente, una breve conversazione guidata in cui si chiede:

“Cosa hai visto? Cosa hai pensato? Come stai adesso?”

Cos’è il debriefing?

Il debriefing è un incontro più strutturato, collettivo, da svolgere entro 48-72 ore dopo l’evento.
Si lavora in piccoli gruppi con un moderatore e si:

  • ripercorrono i fatti
  • esprimono emozioni
  • validano le reazioni
  • offrono elementi di comprensione e rassicurazione

Il debriefing aiuta a ricostruire il senso dell’esperienza, a non sentirsi soli o sbagliati.

Perché sono fondamentali?

Senza defusing e debriefing, c’è più rischio di:

  • attacchi di panico ritardati
  • insonnia
  • colpe non gestite
  • stress post-traumatico (PTSD)
  • isolamento

Con questi strumenti, invece, si ottengono:

  • maggiore coesione del gruppo
  • percezione di sicurezza
  • riduzione del peso emotivo individuale

Chi può farli? Anche tu (con metodo)

Non serve essere psicologi per fare un defusing di base via radio o in presenza.
Basta:

  • ascoltare
  • non giudicare
  • porre domande semplici
  • accogliere ogni risposta come “valida”
    Il debriefing invece richiede più preparazione, ma puoi favorirlo organizzando o suggerendolo.

Frasi utili per un defusing via PoC

  • “Come ti senti adesso, dopo tutto quello che è successo?”
  • “Cosa ti è rimasto più impresso?”
  • “Cosa ti ha fatto sentire più al sicuro?”
  • “Ti va di parlarne ora, o più tardi?”
    Sono frasi non intrusive, ma capaci di aprire uno spazio emotivo.

Il vero soccorso continua dopo

L’evento finisce, ma l’impatto resta.
Offrire uno spazio per parlarne, decomprimere, condividere è un dono immenso.
Che tu sia operatore o cittadino, se apri una voce, un canale, una pausa per ascoltare…

stai già facendo defusing. Stai già aiutando.

Strategie per aiutare senza imporsi

Essere d’aiuto non significa prendere il controllo

Il confine tra supporto e invasione è sottile

In momenti critici, chi si sente forte o lucido tende a voler “risolvere”.
Ma attenzione: aiutare non è comandare.
L’aiuto vero è quello che rispetta i tempi, lo spazio e lo stato mentale dell’altro.

L’aiuto imposto genera rifiuto. L’aiuto proposto genera fiducia.

Ascolta prima di agire

La tentazione di intervenire subito è forte.
Ma la prima forma di aiuto è ascoltare veramente.
Via PoC, questo significa:

  • lasciar finire la frase dell’altro
  • non sovrapporre soluzioni
  • usare frasi come:

“Ti va se ti dico cosa farei io?”
“Posso darti un’idea, poi decidi tu.”

Offri, non imporre

Frasi corrette:

  • “Vuoi che ti accompagni passo passo?”
  • “Se ti va, possiamo fare così…”
  • “Cosa ti aiuterebbe adesso?”

Frasi da evitare:

  • “Fai come ti dico.”
  • “No, stai sbagliando.”
  • “Non c’è tempo, seguimi e basta.”
    Queste chiudono il dialogo.
    L’aiuto che chiude è inutile.

Riconosci l’altro come soggetto attivo

Chi è in difficoltà non è un oggetto da guidare.
È una persona che sta vivendo uno stato alterato, ma ha ancora valore, identità, dignità.

Coinvolgerlo nelle scelte, anche minime, lo rafforza.
Esempio:
“Ti va se proviamo a fare un respiro insieme?”

Rispetta il rifiuto (senza offenderlo)

Se qualcuno dice “lasciami stare”, non è detto che voglia davvero essere solo.
Può voler dire “sto troppo male per accettare aiuto ora”.
Risposta efficace:

“Capito. Resto comunque qui, in ascolto. Quando vuoi.”
Questo mantiene il ponte aperto senza forzare il passaggio.

Valuta la soglia emotiva dell’altro

Chi è al limite non può ricevere informazioni complesse, ordini o discorsi razionali.
L’aiuto dev’essere:

  • calibrato
  • gentile
  • orientato a contenere, non a correggere
    Esempio:

“Non devi fare tutto subito. Facciamo una cosa alla volta, se vuoi.”

Aiutare davvero significa restare, non dirigere

Il miglior aiuto è quello che non si vede, ma si sente.
Essere vicini senza occupare tutto lo spazio.
Parlare senza invadere la mente dell’altro.
Restare senza bisogno di essere ringraziati.

Questo è il tipo di supporto che rende più forte chi lo riceve. E più umano chi lo offre.

Come evitare il panico diffuso nel gruppo

La paura è contagiosa, ma anche la lucidità

Il panico non è solo individuale: si trasmette

In una comunicazione di gruppo (soprattutto via radio), basta una voce agitata per scatenare una reazione a catena.
Succede spesso:

  • uno urla
  • un altro reagisce male
  • un terzo entra nel panico
    Nel giro di 15 secondi, il canale diventa una zona rossa emotiva.
    Il panico collettivo non va affrontato: va prevenuto.

Chi parla per primo, detta il tono

La prima voce che si fa sentire imposta l’energia del gruppo.
Se è ansiosa → il gruppo si destabilizza.
Se è calma → crea un punto fermo.

  • Frasi da usare subito:

“Sono Michele. Restiamo in ascolto. Parliamo uno alla volta.”
“Tutti ricevuti. Nessuno è solo. Calma e ordine, siamo qui.”

Stabilire un protocollo vocale aiuta tutti

Un gruppo allenato sa che:

  • si risponde solo se chiamati
  • si usano parole chiave chiare
  • c’è sempre una voce guida, anche provvisoria

“Tutti in ascolto. Procediamo in ordine. Chi ha bisogno parli uno alla volta.”
Questa struttura rassicura anche chi è in crisi.

Contenere chi è nel panico senza esporlo

Non correggere bruscamente chi urla: peggiori la situazione.

  • Frasi utili:

“Va bene, ti sentiamo. Respira. Resta in ascolto.”
“Tutti in silenzio. Gestiamo una voce alla volta.”

  • Frasi da evitare:

“Zitto!”
“Non dire cavolate!”
“Stai zitto che rovini tutto!”

Il silenzio gestito è uno strumento potente

Quando c’è troppo rumore emotivo:

  • chiama un silenzio operativo

“Stop parlato. Silenzio dieci secondi.”

  • respira con calma
  • riprendi con voce lenta, chiara, diretta
    Questo resetta l’energia del gruppo.

Parla come se fossi il punto d’appoggio di tutti

Non serve autorità, ma presenza stabile.
Chi riesce a dire:

“Ci sono. Non mollo. Ci coordiniamo.”
diventa il perno del gruppo, anche solo per qualche minuto.
La fiducia si costruisce frase dopo frase.

Un gruppo ben guidato non esplode

Il panico diffuso non è inevitabile.
Con una comunicazione chiara, ritmata, empatica, è possibile mantenere un gruppo connesso anche in emergenza.
E quando tutti si muovono nella stessa direzione, la paura trova meno spazio per crescere.