Non sostituirsi agli psicologi: dove si ferma il nostro ruolo

Il confine tra essere d’aiuto e fare danni (anche in buona fede)

Offrire ascolto non è fare terapia

Quando siamo presenti, empatici, disponibili, qualcuno può dirci:

“Mi fai meglio tu di uno psicologo.”
Può sembrare un complimento. In realtà è un segnale di rischio.
Perché l’ascolto umano è potente, ma ha limiti precisi.
Non abbiamo strumenti per gestire traumi profondi, psicosi, crolli identitari.

Il nostro ruolo: contenere, non curare

Il nostro compito, come volontari, operatori radio, cittadini attivi, è:

  • stare vicino
  • contenere nel momento
  • ascoltare senza giudizio
  • reindirizzare se serve
    Ma non entrare nel passato clinico, non fare diagnosi, non “risolvere traumi”.

Frasi da usare (e da evitare)

✅ “Se ti senti male da giorni, potresti parlarne con uno specialista.”
✅ “Io ci sono per ascoltarti, ma non sono un professionista.”
✅ “Vuoi che cerchiamo insieme un supporto più strutturato?”

❌ “Secondo me hai un disturbo.”
❌ “Dovresti prendere qualcosa per calmarti.”
❌ “Hai bisogno di me, non di uno psicologo.”

Fare il bene dell’altro non significa essere indispensabili.

Quando è il momento di “passare la palla”

  • Quando i sintomi persistono oltre 2 settimane
  • Quando compaiono ideazioni autolesive o pensieri di morte
  • Quando la persona inizia a dipendere da te emotivamente
  • Quando non riesci più a dormire perché pensi a lei/lui

È lì che si ferma il nostro aiuto.
È lì che inizia l’intervento psicologico vero.

La trappola del salvatore

Spesso ci leghiamo profondamente a chi aiutiamo.
Questo può diventare:

  • dipendenza reciproca
  • esaurimento da coinvolgimento emotivo
  • difficoltà a lasciar andare

Ricorda: non sei indispensabile. Sei un passaggio, un ponte.

Come PoC Radio Italia può fare la sua parte

  • Facilitando il contatto con reti di professionisti
  • Creando spazi dove l’aiuto umano non pretende di curare
  • Educando chi comunica alla cultura del limite responsabile

L’aiuto vero è anche saper dire: “Ora non basta più la mia voce. Serve qualcosa in più.”

Aiutare davvero è anche sapere quando smettere

Essere d’aiuto non vuol dire trattenere l’altro a tutti i costi.
Vuol dire accompagnarlo fino al punto giusto, e poi lasciare spazio a chi può andare oltre.

Perché la cura è un percorso. E noi siamo solo uno dei primi gradini.

Riconoscere segnali di disagio prolungato

Non è solo una giornata storta: è qualcosa che resta

La differenza tra crisi momentanea e disagio prolungato

Uno scatto d’ira, un pianto improvviso, un silenzio momentaneo… possono essere normali reazioni allo stress acuto.
Ma se certi comportamenti persistono per giorni o settimane, senza miglioramenti visibili, potremmo trovarci davanti a un disagio psicologico strutturato.
Riconoscerlo per tempo fa la differenza.

Segnali vocali e comportamentali da osservare

Via PoC Radio o in presenza, presta attenzione se una persona:

  • ha tono piatto, spento, privo di variazione
  • evita le conversazioni, anche se prima era attiva
  • ripete le stesse frasi senza evoluzione (“tanto è inutile”, “non cambia nulla”)
  • non risponde ai messaggi ma rimane online
  • mostra irritabilità costante, anche per dettagli banali

Segnali più sottili ma significativi

  • Ride fuori contesto
  • Minimizza con frasi come “sto bene” senza mai aprirsi
  • Parla di “stanchezza cronica” o “non dormo da giorni”
  • Dimentica cose importanti o mostra confusione
  • Dice frasi come: “Non so se ci sarò domani”, “Magari sparisco”

Non sono allarmi immediati, ma campanelli da non ignorare.

Cosa fare se noti questi segnali

  • Mostrati disponibile senza forzare
    Usa frasi come:
  • “Ti sento diverso, se vuoi parlarne ci sono”
  • “Anche se non rispondi, io resto in ascolto”
    ✅ Offri continuità: un piccolo messaggio ogni giorno può fare la differenza
    ❌ NON dire:
  • “Ma dai, è solo stress”
  • “Tutti hanno problemi, su”
  • “Vedrai che passa”
    Queste frasi chiudono, non aiutano.

Attiva il gruppo, non rimanere solo

Se il disagio è evidente ma non gestibile da soli, coinvolgi:

  • altri membri fidati
  • familiari (se noti segnali critici)
  • figure professionali se disponibili
    L’obiettivo non è “curare”, ma non lasciare soli.

Anche chi aiuta può ammalarsi

Attenzione: chi è sempre disponibile per gli altri può diventare vulnerabile al disagio prolungato.
Se ti accorgi di:

  • stanchezza emotiva continua
  • cinismo crescente
  • desiderio di isolarti
    …forse è tempo di chiedere sostegno per te, non solo per gli altri.

Riconoscere è prevenire

Il disagio prolungato non si manifesta sempre in modo evidente.
Serve attenzione, memoria relazionale, e la capacità di leggere anche tra le righe.
Chi nota per tempo, chi nomina con delicatezza, chi resta vicino…

può diventare la voce che interrompe il silenzio più pericoloso di tutti.

Come offrire continuità relazionale via PoC

La voce che resta è quella che fa la differenza

La relazione si costruisce nel tempo, non nel momento

Una buona comunicazione in emergenza non è solo un gesto isolato. È un processo relazionale continuo, fatto di:

  • messaggi coerenti
  • tono stabile
  • presenza ripetuta
    Chi è “presente solo nel momento clou” rischia di essere percepito come invasivo o disorientante.

Cosa significa “continuità” via PoC?

Significa:

  • essere presenti regolarmente (anche quando tutto è tranquillo)
  • usare lo stesso tono e lo stesso stile
  • raccogliere i fili delle conversazioni precedenti
  • offrire aggiornamenti, non solo risposte estemporanee

“Ieri eri preoccupato per tua madre. Oggi come va?”
Questa frase crea continuità, non è solo tecnica: è relazione.

Frasi che generano continuità

  • “Come ti sei sentito dopo l’altra volta?”
  • “Restiamo in contatto anche domani.”
  • “Se hai bisogno, io mi collego anche alle 19.”
  • “Puoi scrivermi in privato se vuoi continuare.”
  • “La tua voce è importante per noi, anche ora che va meglio.”

Queste frasi dicono: non sei un evento. Sei una persona.

Perché la continuità è così importante?

Perché riduce l’effetto “abbandono”, soprattutto dopo un evento traumatico.
Chi ha parlato con te in una crisi si aspetta di poterti ritrovare.
Se sparisci, il messaggio implicito è: “ti ho ascoltato solo finché serviva a me”.
Se resti, generi fiducia profonda.

Come organizzarsi in gruppo per garantire continuità

  • Suddividere i turni di presenza su canale
  • Annotare brevi note su chi ha parlato e con chi
  • Riattivare la conversazione con chi era in crisi
  • Non cancellare la memoria emotiva del gruppo

PoC Radio Italia può diventare un ecosistema affettivo, non solo tecnico.

Attenzione: la continuità non è invadenza

Essere presenti non vuol dire invadere.
Vuol dire lasciare una porta socchiusa, non spalancata.
✅ “Ti riscrivo io, se vuoi”
è diverso da
❌ “Ti scrivo ogni ora finché non rispondi”

La relazione stabile è quella che dà spazio, non pressione.

Chi resta, conta di più di chi arriva e sparisce

Offrire continuità relazionale via PoC non richiede ore di connessione, ma gesti piccoli e ripetuti con coerenza emotiva.
Una voce che resta, che torna, che si ricorda…

è una voce che cura. E in certi momenti, basta quella per sentirsi meno soli.

Quando il silenzio è più utile della parola

Il silenzio non è assenza, è uno strumento

Non parlare subito non è disinteresse, è rispetto

Quando una persona è in crisi, piange, o è disorientata, la tentazione è riempire il vuoto.
Ma spesso, parlare subito è più per rassicurare noi stessi che per aiutare l’altro.
Il silenzio, invece, offre spazio: per sentire, respirare, elaborare.

Via radio, il silenzio ha ancora più valore

Sulla PoC Radio, il silenzio ben gestito può:

  • rassicurare senza sovraccaricare
  • dimostrare ascolto reale
  • evitare che le parole diventino rumore
    Esempio:

La persona tace.
→ tu rispondi: “Va bene. Ti ascolto. Resto qui.”
Poi silenzio.
Questo comunica presenza, non abbandono.

Quando è meglio tacere?

  • Quando l’altro è in stato di confusione o pianto
  • Dopo una frase importante (lascia tempo per elaborare)
  • Quando si è tentati di dare consigli non richiesti
  • In momenti di disorientamento collettivo
  • Quando non si ha nulla di utile da dire

In quei momenti, il silenzio è una forma avanzata di guida.

Come si comunica un silenzio attivo?

Via radio, non basta stare zitti: serve contestualizzare il silenzio.

Frasi chiave:

  • “Va bene. Fai pure con calma. Io sono qui.”
  • “Resto in ascolto. Parla quando vuoi.”
  • “Va bene anche il silenzio adesso.”

Queste frasi danno il permesso di non parlare senza sentirsi sbagliati.

Silenzio e voce guida: un equilibrio da allenare

Una voce guida non riempie, dirige con ritmo.
Rallenta, poi parla.
Alterna: parola → pausa → presenza.

Così si crea un ambiente comunicativo sicuro, non affollato.

6. Errori comuni da evitare

❌ Parlare per riempire
❌ Ripetere “ci sei? ci sei?” dopo 3 secondi di silenzio
❌ Premere il PTT senza nulla da dire
❌ Interrompere chi ha bisogno di tempo
❌ Pensare che il silenzio sia “tempo perso”

In realtà, è uno spazio che permette alla mente di rientrare nel corpo.

Il silenzio è un gesto attivo di rispetto

In emergenza, non sempre serve una risposta.
A volte, serve solo una presenza che non pretende nulla.
Una radio aperta. Una voce che dice:

“Io sono qui, anche se non dici nulla.”
Questo può valere più di mille parole.

Strategie per aiutare senza imporsi

Essere d’aiuto non significa prendere il controllo

Il confine tra supporto e invasione è sottile

In momenti critici, chi si sente forte o lucido tende a voler “risolvere”.
Ma attenzione: aiutare non è comandare.
L’aiuto vero è quello che rispetta i tempi, lo spazio e lo stato mentale dell’altro.

L’aiuto imposto genera rifiuto. L’aiuto proposto genera fiducia.

Ascolta prima di agire

La tentazione di intervenire subito è forte.
Ma la prima forma di aiuto è ascoltare veramente.
Via PoC, questo significa:

  • lasciar finire la frase dell’altro
  • non sovrapporre soluzioni
  • usare frasi come:

“Ti va se ti dico cosa farei io?”
“Posso darti un’idea, poi decidi tu.”

Offri, non imporre

Frasi corrette:

  • “Vuoi che ti accompagni passo passo?”
  • “Se ti va, possiamo fare così…”
  • “Cosa ti aiuterebbe adesso?”

Frasi da evitare:

  • “Fai come ti dico.”
  • “No, stai sbagliando.”
  • “Non c’è tempo, seguimi e basta.”
    Queste chiudono il dialogo.
    L’aiuto che chiude è inutile.

Riconosci l’altro come soggetto attivo

Chi è in difficoltà non è un oggetto da guidare.
È una persona che sta vivendo uno stato alterato, ma ha ancora valore, identità, dignità.

Coinvolgerlo nelle scelte, anche minime, lo rafforza.
Esempio:
“Ti va se proviamo a fare un respiro insieme?”

Rispetta il rifiuto (senza offenderlo)

Se qualcuno dice “lasciami stare”, non è detto che voglia davvero essere solo.
Può voler dire “sto troppo male per accettare aiuto ora”.
Risposta efficace:

“Capito. Resto comunque qui, in ascolto. Quando vuoi.”
Questo mantiene il ponte aperto senza forzare il passaggio.

Valuta la soglia emotiva dell’altro

Chi è al limite non può ricevere informazioni complesse, ordini o discorsi razionali.
L’aiuto dev’essere:

  • calibrato
  • gentile
  • orientato a contenere, non a correggere
    Esempio:

“Non devi fare tutto subito. Facciamo una cosa alla volta, se vuoi.”

Aiutare davvero significa restare, non dirigere

Il miglior aiuto è quello che non si vede, ma si sente.
Essere vicini senza occupare tutto lo spazio.
Parlare senza invadere la mente dell’altro.
Restare senza bisogno di essere ringraziati.

Questo è il tipo di supporto che rende più forte chi lo riceve. E più umano chi lo offre.

L’importanza della voce guida

Una sola voce può tenere unito un intero gruppo

Chi guida la voce, guida la mente

In un’emergenza, il cervello umano cerca un riferimento chiaro, autorevole ma rassicurante.
Quando le informazioni sono frammentate, le emozioni alte, il contesto instabile, una voce calma e strutturata può diventare l’unico punto fermo.
Questa è la voce guida: non parla più degli altri, parla meglio.

Non è questione di autorità, ma di stabilità

La voce guida non è il “capo”.
È la persona che ha capito che in quel momento serve ordine, non protagonismo.
Parla con:

  • tono basso
  • frasi chiare
  • ritmo costante
  • contenuto utile
    E soprattutto sa quando parlare e quando stare in silenzio.

Un esempio via PoC: canale in crisi

Situazione: 5 utenti parlano insieme, uno urla, un altro piange.
La voce guida entra così:

“Qui Michele. Stop parlato. Uno alla volta. Iniziamo da [nome]. Gli altri in ascolto.”
Poi chiude ogni turno con:
“Ricevuto. Passo la parola a [nome successivo].”
Questo riporta il ritmo, riduce il caos e crea fiducia.

Frasi chiave da voce guida

  • “Tutti ricevuti. Ora parliamo in ordine.”
  • “Resto qui. Vi accompagno. Uno per volta.”
  • “Se ti senti in difficoltà, dimmelo. Non c’è fretta.”
  • “Tornerò a parlare tra 30 secondi. Restate in ascolto.”
  • “Raccontami cosa vedi, non cosa temi.”

Come si diventa voce guida?

  • Respira prima di premere PTT
  • Scegli un tono tra calma e decisione
  • Struttura le frasi prima di parlare
  • Non giudicare mai chi sta parlando
  • Accetta il ruolo, anche se nessuno te l’ha assegnato ufficialmente
    Chi riesce a fare questo è già guida, anche senza titolo.

La voce guida è contagiosa (in positivo)

Chi ascolta una voce calma, pulita, stabile:

  • si rallenta
  • respira meglio
  • sente di far parte di un gruppo ordinato
    Questo riduce il panico, aumenta la fiducia, migliora la reazione collettiva.

La voce guida non comanda. Tiene insieme.

La voce guida non è un’opzione, è un dovere etico

Nei gruppi PoC Radio, soprattutto in emergenza, qualcuno deve assumersi la responsabilità della comunicazione stabile.
Non serve essere perfetti, ma presenti e coerenti.
Quando tutto trema, una voce solida può tenere insieme un’intera comunità.